Cinema americano degli anni ’70. Dopo anni di storie dedicate a famiglie felici arrivano dei registi che producono pellicole utili a rendere voce all’alienazione urbana. In questo contesto Taxi Driver irrompe come un pugno allo stomaco. Un viaggio notturno che ancora oggi brucia sotto la pelle di ogni spettatore. Un film che non si limita a raccontare una città, ma scava nei suoi abissi, rispecchiandoli nella mente di un protagonista fragile, scisso e pericolosamente lucido.
Una New York che divora e distorce
Il film di Martin Scorsese Taxi Driver è ambientato in una New York che pulsa di vita e marciume allo stesso tempo. La città non è soltanto uno sfondo, ma un organismo vivo, sporco, intriso di violenza e solitudine. Le strade sono illuminate dai neon e i vicoli sono pieni di ombre. Le notti sono interminabili e tutto sembra possibile e al tempo stesso perduto.
La città diventa il riflesso perfetto del tormento interiore del protagonista, Travis Bickle (Robert De Niro). Scorsese film questa metropoli come fosse un labirinto visivo, in cui le immagini si susseguono a scorrimento lento e poi improvvisamente esplodono. La regia segue i battiti irregolari del protagonista e del mondo in cui lui vive, un mondo alla deriva.

Una rappresentazione che è più attuale che mai perché descrive il ritratto di un degrado che continua a parlare al presente e che come vedremo racconta la storia di un uomo disorientato dalla vita stessa.
Travis Bickle: un’anima che scivola nel buio
Il protagonista di Taxi Driver è un ex marine insonne e disorientato che passa le sue notti guidando un taxi per le strade più pericolose della città.
Travis Bickle è interpretato da uno degli attori più potenti della storia del cinema, che qui ci dona una delle sue migliori interpretazioni che al tempo stesso minimalista, disturbante e totalmente immersa. Robert De Niro infatti riesce a donarci un personaggio che discende gradualmente nell’oscurità. Travis ogni notte dietro il volante si logora sempre un po’ di più, in ogni suo incontro fortuito si spinge più in profondità verso il baratro, un baratro che lui stesso fatica a riconoscere.
Il protagonista è un uomo che vorrebbe ripulire la città, ma la sua idea di giustizia è deformata dalla solitudine da un bisogno disperato di sentirsi vivo. La trasformazione di questo essere umano culmina in un crescendo che è insieme tragico e inevitabile, un punto di rottura che rivela quanto fragile possa essere la linea tra vittima e carnefice.
Una regia che scolpisce il disagio
Per raccontare tutto questo nel seguire le vicende di un solo personaggio che poi a che fare con altri personaggi di contorno, ci vuole un regista che abbia una consapevolezza visiva e narrativa magistrale. Scorsese era forse l’unico che poteva creare un film come Taxi Driver.
La sua firma la si legge nelle inquadrature che tagliano il volto di Travis, negli specchi retrovisori che riflettono una città mai davvero raggiungibile, nei movimenti di macchina lenti e soffocanti. Ogni scena è un tassello di un ritratto psicologico complesso.

A coronare questo disegno c’è poi la colonna sonora di Bernard Herrmann, che con i suoi temi jazz soffusi ed inquieti, accompagna la deriva del protagonista come un battito cardiaco distorto. Le azioni non sono mai spettacolari, risultano però necessari all’occhio dello spettatore perché sono radicate nella storia del protagonista.
Per questo molte scene, alcune tra le più violente, sono diventate con il tempo iconiche, anche se il film funziona soprattutto nella sua capacità di insinuarsi nella mente dello spettatore e di creare un senso di disagio che non si dissolve facilmente.
Taxi Driver: un viaggio da cui non si esce indenni
Il film di cui abbiamo parlato oggi è considerato un capolavoro – un cult – non soltanto per la sua storia, ma per il modo in cui è riuscito ad affrontare i temi della solitudine, della marginalità e dell’identità in maniera per nulla scontata.
Se non l’avete mai visto, sappiate che è un film che non offre risposte, ma che lascia lo spettatore in sospeso perché l’interrogativo principale è un nodo che secondo il regista non può essere sciolto. Per Scorsese infatti la distanza tra normalità e follia è talmente sottile che difficile identificare quando un essere umano si trovi nell’una o un’altra accezione.
L’eredità che lascia questa pellicola enorme, tanto che ha influenzato generazioni di registi a creato un nuovo modello di antieroe continua ad essere oggi studiato come uno dei ritratti più onesti e spietati della fragilità umana.
