Quando nel 1982 uscì nelle sale cinematografiche quello che poi sarebbe diventato il cult che ha rivoluzionato gran parte del cinema fantascientifico dell’epoca, il pubblico forse non era ancora pronto a quello che Ridley Scott stava cercando di mostrare. Blade Runner, a più di quarant’anni di distanza, fa ancora discutere per quel modo cupo, stratificato, umido e tecnologicamente soffocante che col senno di poi non ha fatto altro che anticipare con inquietante lucidità il presente. Un film impossibile da archiviare semplicemente come cult, perché è un’opera che continua a parlare, a prevedere e ad interrogare chi la guarda.
Blade Runner e una Los Angeles ombra del nostro presente
Ridley Scott si immagina Los Angeles nel 2019 come un incrocio tra un incubo noir e un futuro decadente in cui la tecnologia è onnipresente, ma l’umanità appare più fragile che mai.
Blade Runner mostra una pioggia incessante, gigantografie pubblicitarie ovunque, neon onnipresenti e una commistione di culture che dà vita ad una città frenetica e sradicata. Non c’è nulla di futuristico nel senso più classico del termine. Non c’è meraviglia, c’è solo sopravvivenza, consumo, identità sfumate. Non vi ricorda niente?

Quello di Scott è un futuro stanco, un mondo che sembra aver già perso qualcosa e che non ha più nulla da dare. In questo contesto si inserisce la figura del protagonista: Rick Deckard, un antieroe che non sa più chi è, interpretato da un brillante Harrison Ford come un uomo stanco, vuoto, che non sceglie nulla ma viene trascinato dagli eventi.
Rick Deckard e la sua missione
Deckard ha una missione, ritirare i replicanti in fuga. Una missione, sì, che è molto più di un incarico perché nel compierla il protagonista mette in dubbio costantemente la natura della vita stessa.
Il protagonista di Blade Runner è l’emblema dell’eroe noir: disilluso, solitario, incapace di trovare il proprio posto in un mondo che non gli assomiglia più. La sua ricerca non è tanto quella dei replicanti, quanto quella di una sua moralità residua.
Insieme a lui c’è Roy Batty, un personaggio che potremmo definire il vero cuore del film. Interpretato da Rutger Hauer, questo personaggio riesce a trasformare il film è un classico immortale, a partire dal suo celebre monologo – improvvisato dall’attore – che porta con sé una frase emblematica: “All those moments will be lost in time, like tears in rain” – “Tutti questi momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia”. Uno dei momenti più intensi del cinema moderno.

Roy è violento, spietato, ma profondamente umano. La sua paura della fine, la sua furia contro un creatore indifferente e il suo ultimo gesto di compassione lo rendono il personaggio più “vivo” della storia. Un paradosso imperfetto, il suo, che da macchina incarna l’umanità perduta nel mondo di Blade Runner.
La forza visiva di Ridley Scott
Ma se c’è una cosa che ha reso indimenticabile questo film è la forza visiva che il regista è riuscito a creare. Dal design di Syd Mead, alle atmosfere musicali di Vangelis, ogni componente estetica è iconica. La fusione tra noir anni ’40 e fantascienza distopica è perfetta. C’è il fumo, ci sono le ombre, le luci taglienti, gli ambienti sovraffollati ma emotivamente vuoti.
La regia non cerca il ritmo, ma la contemplazione. Ogni inquadratura è una finestra su un mondo che respira, soffre e si dissolve. Per questo Blade Runner non è soltanto un film, ma un’esperienza, che riesce a mettere lo spettatore nella modalità di farsi una domanda filosofica (travestita da thriller). Un mosaico di immagini e pensieri che continuano ad interrogare chi lo guarda. Un classico perché appartiene al passato, ma anche perché in ogni epoca riesce a ripresentarsi come attuale, disturbante, necessario.
